Al solito, quella che doveva essere una partenza all'alba rischiava di sovrapporsi al pranzo, quando dalla curva apparve il bus giallo che un tempo avrá portato generazioni di bambini in una qualche scuola americana. Pensando a quanti di questi mezzi girano ora per l'Honduras non si puó non sospettare che questo paese abbia dovuto subire qualche raggiro, o peggio. Bus che in breve tempo si riempí di attivisti honduregni e internazionali, indigeni Lenca, Maya Chorti e Garifuna dal Caribe, qualche campesino dell'Agúan e 3 galli cerimoniali. Un obiettivo "muy rico" se il governo avesse avuto fame.
Nei giorni del cambio di era cosmica, a cavallo del 21 dicembre 2012 del calendario gringo, questa delegazione aveva l'obiettivo di saldare nuove e vecchie alleanze attraverso cerimoniali e riti sull'altopiano del Potrero, territorio Lenca tra le montagne del sud ovest del paese, che si crede abbia un grande potere spirituale. Nell'ordine, avrebbero iniziato i Lenca al tramonto, seguiti dai Maya Chorti a cavallo dell'alba e a seguire, a un orario indefinito, i Garifuna, per rispettare i ritmi rilassati del Caribe. Un piccolo tour de force che avrebbe dovuto portare benedizioni e buoni auspici, ma che inaspettatamente suscitó rivalitá ancestrali tra quale fosse il rituale piú toccante e chi avesse gli antenati piú potenti. Una situazione a dir poco imbarazzante. Il prete del paese, solitamente pronto a inserirsi in affari altrui, si rifiutó di fare da pacere e si diede per malato. Ai gringos, invece, sapendo come spesso operano, fu consigliato di non intervenire per non aggravare una situazione giá scivolosa. Passavano le ore e la mezzanotte tra 20 e 21 si avvicinava. Arrivare cosí a questo momento tanto importante sarebbe stato il peggiore degli scenari. Davanti alla scuola che ospitava parte della comitiva, a fianco della grande cucina, stava un campo da calcio dalle misure irregolari e con qualche fastidiosa pietra a livello del centrocampo, senza una traversa e usato forse piú dai cavalli e dagli asini del paese che da umani, nonostante vantasse cosí un manto erboso sempre rasato, da campionato nazionale. Fu anche per questa comoditá che uno dei Garifuna, che si diceva essere zio di David Suazo, propose di giocarsela a calcio, in un torneo tra le tre squadre indigene e una composta dai bambini del paese, data la loro assidua presenza all’ombra della quercia cresciuta vicino al campo, che accettarono con l'innocenza della loro etá di giocarsi la faccia e forse il futuro del pianeta sul campo di casa. Lenca e Maya Chorti accettarono invece piú per necessitá che per convinzione, dopo aver consultato le loro autoritá religiose, che peró imposero alcune modifiche alle regole che i gringos avevano spiegato: la presenza contemporanea delle quattro squadre perché tutti figli dello stesso cielo, quattro porte agli angoli perché rappresentino i passaggi tra le dimensioni astrali, quattro palle perché ci fossero equitá e uguaglianza, e che i giocatori per squadra fossero otto, simbolo di un tempo circolare. E per questo imposero un unico tempo di gioco, brevissimo, che obbligò a iniziare la partita quando il sole avesse toccato l'orizzonte e a terminarla quando fosse completamente sparito. In realtá si sospettó che questa scelta andasse incontro anche alla scarsa forma fisica dei giocatori e alla ritrosía Garifuna per uno sforzo fisico tanto inutile, ma nessuno lo disse ad alta voce; solo i bambini, che speravano di poter passare un'intera giornata senza lavorare, provarono ad abbozzare qualche osservazione, ma gli sguardi di fuoco degli indigeni e le mani dei genitori, intimoriti dagli eventi, riportarono la situazione all’unanimitá. Non fu infine prevista la presenza di arbitri, né alcuno si propose; incondizionata era la fede nella forza e nella saggezza degli antenati, cui nessun umano poteva ambire. La giornata della partita si presentó soleggiata e tersa. Solo piccole nuvole di fumo salivano dai fuochi a legna su cui cuocevano tortillas, pollo e fagioli. Piú nascosti, stavano uomini che approfittarono della giornata di festa per stare fuori casa, chiacchierando tra una birra e l'altra. Come spalti vennero sistemati lunghi tronchi e si stesero alcune maglie di filo spinato tra le porte improvvisate, con il timore, espresso con timidezza da alcuni, che non bucassero i giá maltrattati e pochi palloni con cui giocavano. E non avendo calce né gesso, su una vecchia mula si passó di casa in casa per chiedere un bicchiere di farina per tracciare le righe. L'effetto scenico fu straordinario, potendo contare su mais bianco, nero, giallo pallido e tendente al rosso. E più il momento si avvicinava, più gli animi si scaldavano. La squadra dei Lenca, guidati da Dona Catarina, celebró il prepartita con incenso e sangue di pollo, guardati con un po' di invidia dai Maya Chorti, che avrebbero voluto fare altrettanto, ma dal Guatemala non erano riusciti a portare nulla da uccidere, giá pronti nel loro completo di lino bianco e fasce rosse alla vita e sul capo. I Garifuna, invece, mostrando un’indole spudoratamente anarchica e contando piú sulla mole della compagna che stava in porta che in una qualche strategia offensiva, ne approfittarono per fumarsi gli ultimi sigari, davanti agli sguardi intimoriti dei bambini, che forse per la prima volta vedevano persone tanto grandi e dalla pelle tanto nera. Pochi minuti prima del tramonto furono consegnate le palle alle squadre. La proprietaria del piccolo spaccio alimentare che si affacciava sul campo avrebbe dato il via e la fine con un campanaccio per vacche non piú usato da tempo, essendo troppo poveri per averne. Lo fece quasi con noia, quasi se quel ruolo la infastidisse, ma fu rigorosa ed equilibrata, portando a termine questo ruolo come lo avrebbe fatto un astronomo di fama, o un arbitro professionista, senza neanche far pesare quanto questo compito fosse delicato. Ci furono grandi corse, abbracci e proteste, e qualcuno uscì prima della scampanata finale. Ma non vinse nessuno e forse non poteva andare altrimenti, considerati 102” di gioco effettivo, alcuni falli laterali, due tiri e un clamoroso palo dei Garifuna. Tutti accettarono questo verdetto come un’affermazione della grandezza degli antenati, secondi a nessuno perché nessuno fu primo, e questo bastó per riportare la pace e saldare finalmente le alleanze tanto messe a rischio. A giorni ci sarebbe stata da presidiare la piazza centrale della capitale per rivendicare le misure del pacchetto di legge 169 sui diritti dei popoli indigeni e si doveva arrivare uniti. Solo alcuni bambini proseguirono la partita anche al buio, sfidando cosí i precetti dei sacerdoti e i rimproveri dei genitori, e aprendo con questo piccolo atto di insubordinazione il nuovo ciclo astrale.








