Non bevo quasi mai caffè.
Stanotte, però, sono già stanca. Sono solo le 23.00 e il mio corpo fatica a svegliarsi. I pensieri, che solitamente scorrono veloci, si perdono tra il marciapiede e le scarpe, cosicché io cammino leggera lungo il viale. Quasi mai. Ovvero, ogni tanto.
Per ordinare aspetto l’arrivo di Vincent, fiduciosa che vivendo a Kipsèli da diversi mesi abbia ormai trovato il “suo bar di fiducia”, il luogo in cui fare ritorno ogni qualvolta si avverta il desiderio di un sapore casalingo. Il caffè nero mi scotta la lingua aumentando la mia silenziosità. Aspettiamo in piedi gustandoci l’attesa e questa sospensione si riempie velocemente di parole incapaci di esprimere fino in fondo la nostra avversione verso una società sempre più chiusa nelle sue paure. Mi guardo attorno percependo il risveglio del mio corpo e pensando che la fermata di Platia Amerikì è il posto in cui ho passato più tempo in questo quartiere.
Fodè mi accoglie sincero stringendomi a sé: un braccio forte attorno alla vita. Un gesto semplice ma che mi sorprende, una durata impercettibile, giusto il tempo necessario di rendermi conto di desiderarlo di nuovo. E vorrei camminare così ancora un po’, incurante dei possibili sguardi curiosi ma lui cammina deciso verso una meta a noi ancora poco chiara, dimenticandosi anche di non avere mangiato. E forse vorrei confidargli che non sono una viaggiatrice, ma una che se ne va e non sa se tornerà mai…ma non è così. Non per me, perchè nel mio caso la possibilità del ritorno diventa spesso un ostacolo alla creazione di una reale alternativa. La sicurezza si trasforma così in responsabilità, il futuro in aspettative, la famiglia in obblighi ed il desiderio di una nonna dagli occhi azzurri e dalla mani che sanno di carte da gioco in un biglietto per l’Italia.
Il mercato è un dispiegarsi di lenzuola sottili ricoperte di oggetti. I migranti aspettano in piedi dietro alle loro “bancarelle” pronti a tirar su tutto nel minor tempo possibile. Non c’è molto rumore, nessuno grida in questa calda notte quasi primaverile, mangiare è come distrarsi e così ci si accontenta di sorseggiare bevande dentro bicchieri di carta incapaci di alterare il gusto dell’acqua sporca di caffè. Circondata da questo mondo fatto di merce e persone mi sento a mio agio: mi sciacquo l’insicurezza dagli occhi passeggiando sicura tra la folla e soffermandomi un poco tra una chitarra azzurra senza corde ed un set da barbiere portatile. Un orologio arancione in stile anni sessanta attira definitivamente la mia attenzione.
“Duex euros?”- mi chiede Fodè quando ritorniamo da lui- “c’est beaucoup!”
Non dico niente, accenno solo un lieve “sì” con la testa continuando a pensare l’impercettibilità di due euro nelle mie tasche.
Fodè lavora insieme a Saim, che indossa dei guanti bianchi per nulla intonati alla primaverile serata invernale. Indicativamente guadagnano circa 30 euro ogni sabato notte. Quindici a testa, ovviamente, come sottolinea perentoriamente Fodè.
Un piccolo salto e sono subito dietro: con la strada alle mie spalle e il lenzuolo ai miei piedi abbandono la mia posizione di spettatrice per assumere, quasi per gioco, quella di venditrice. E quando volti a me sconosciuti mi domandano il prezzo della merce esposta rispondo “due euro!” strattonando la giacca di Fodè nella ricerca di sicurezza. I pochi posti vuoti ancora rimasti si riempiono velocemente: il nostro vicino di piazza si traveste da Babbo Natale indossando una maschera dalla lunga barba bianca: rincorre un bambino che, per nulla spaventato, gioca con lui tirando calci e sorrisi. Compriamo pistacchi, birra e succo di frutta riempiendoci le mani di bucce e sale. Una donna dalla nazionalità confusa attira la mia attenzione: trent’anni e qualche anno di più, il cane abbinato al guardaroba, i capelli biondo platino che sono un lampo nell’oscurità, il portamento sgraziato, le forme ingombranti e la borsa nera di carta di Dolce&Gabbana in cui prova a nascondere vestiti da due euro.
Rientrando verso casa di Vincent penso che mi piacciono gli africani, i loro sorrisi silenziosi, i loro occhi bianchi che non si sforzano di essere felici e che trasmettono una serenità difficile da strappare. Voglio attraversare le nostre diversità senza rendermi invisibile, manifestare ciò che sono, divorare le distanze quasi fossero dolci kilometri ricoperti di cannella, assaporare il gusto dell’essere lontani per aumentare la fame di mescolarsi.
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