La tavola imbandita di cibo marocchino riporta l’immaginario tradizionale arabo tra le mura della casa: cous cous sommerso da melanzane, zucchine, ceci e zucca; due polli –uno al forno ed uno cotto nel tajiin- accompagnati da patate e fegato; la pastella, piatto dolce-salato che confonde il gusto dei presenti; un’insalata verde e rossa ricoperta di formaggio; una padella di spaghetti conditi di carne, sugo e cumino che, insieme alle bottiglie di vino, incrinano per una notte la consuetudine culinaria e religiosa.
Sedute attorno ad un tavolo troppo piccolo ma abbastanza grande, le sette persone presenti condividono una lingua che non appartiene a nessuno di loro.
Le pareti rosse della sala riempiono la stanza di calore. Il tavolino è stato spostato per l’occasione e la gatta, silenziosamente, avanza sinuosa tra gambe ed i bicchieri facendo la conoscenza di tutti i presenti.
I capelli corti e biondi di Joanna sono attraversati da un ciuffo rosso punk-style. Alta come quasi tutte le finlandesi, indossa spesso ampie gonne di tela e camicie colorate mai viste. Abita lontana dal centro ma vicino al mare, protetta tra le mura di un enorme istituto che ospita bambini disabili. Giovane e sana, assiste i ragazzi regalandogli un amore raramente ricevuto. La spiaggetta privata dell’istituto in cui lavora diventa spesso il luogo dove si rilassa quando le grida e le richieste diventano eccessive e prorompenti.
-“Andare a fare la spesa con i bambini è davvero stancante! Ieri abbiamo impiegato un quarto d’ora per attraversare i due vialoni che ci separano dal supermercato. Due corsie da una parte e due dall’altra. Il semaforo se lo sono dimenticati tempo fa per sperare che possano finalmente metterlo…”
Quando qualcuno le chiede notizie relative alla vita nel suo paese, scuote la testa sussurrando convinta un “δεν μπορώ” (non posso) che lascia trasparire un passato lontano nonostante si tratti solo di qualche mese fa.
Alto tanto quanto Joanna, Samìr vive ad Atene da otto anni. Ogni sei mesi deve ritornare ad Alcapon per rinnovare la carta rosa: un foglio sottile da tenere stretto tra la tasca dei pantaloni ed il portafoglio in quanto unico documento che dovrebbe impedirne l’arresto.
-“Ormai non mi pesa nemmeno più andarci, nonostante sia assurdo. Vivo in Grecia dal 2004 ma non ho un permesso che si possa definire tale. Devo aspettare ancora due anni: il problema è che da qualche mese non lavoro più! Vorrei muovermi ma non posso andare in un altro paese. Non mi è permesso. Devo aspettare qui…otto anni possono essere dimenticati con molta facilità in Grecia.”
La camicia grigia appena stirata ha un piccolo graffio sulla manica sinistra. Indossa pantaloni di jeans e scarpe nere di vernice che ben si abbinano ai capelli neri pettinati. Samìr ha occhi profondi ed una bocca sottile: un’espressione che cambia rapidamente quando mette da parte il greco esprimendosi in arabo. Siriano di nascita, non ama la religione ed ha un i-phone con cui scatta spesso fotografie.
-“Anche io devo ritornare ad Alcapon tra quattro giorni. Posso provarci a fare un video con il cellulare, mi farebbe piacere aiutarvi. Per me ora è più facile: non devo più aspettare giorni e giorni seduto sul marciapiede in attesa di essere ricevuto. Avendo già la carta rosa il procedimento è più rapido. Certo, possono sempre decidere di farti aspettare comunque, ma se parli bene il greco e sei fortunato la polizia ti lascia andare velocemente.”
Il viso di un marrone scuro è contornato da rasta sottili e ben curati. Calciatore di professione, Sisè ha asciato la Guinea quattro anni fa e non c’è più ritornato. Dopo un anno in Turchia ha iniziato a giocare in una delle quattro squadre più importanti di Atene. Attaccante, ama il calcio quasi come la Coca-Cola. Non beve alcool e non fuma. Da qualche mese ha deciso di mettere da parte allenamenti e partite perché nessuno gli dava più lo stipendio.
-“Perché dovrei continuare?”
Le labbra carnose sorridono spesso: a Sisè piace ridere e cantare canzoni africane in un dialetto incomprensibile ma capace di trasmettere vicinanza e curiosità.
-“Mamma Africa, mamma Africa” gli dice Haissam stringendosi a lui in un abbraccio. Un’altra fotografia prima che i piatti si svuotino. Mi domando se Haissam si senta più vicino a Samìr o a Sisè, se sia la condivisione di una lingua o la provenienza dallo stesso continente a facilitare un senso di comunanza. Quando elenca -partendo dall’Africa ed arrivando poi in Asia- tutti i paesi in cui si parla arabo, il tono di voce e la sua figura assumono un tono di regalità. Dice di non fumare, ma quando il fratello maggiore -che dipinge quadri contenenti versetti del Corano- decide di andare a dormire, si rolla una sigaretta con una facilità che mette in discussione quanto affermato prima pubblicamente. Beve vino e fa il ramadam. Ha amato Papa Giovanni Paolo II ma non Ratzingher.
Nonostante ora lavori nel negozietto sotto casa ama cucinare: ogni estate chiude la porta del mini-market e si reca a Tessaloniki dove lavora come aiuto cuoco in un hotel. Cucina francese e piati tipici greci. La cucina marocchina la riserva per occasioni private. Dall’accuratezza con cui ha disposto le portate sulla tavola trapela la passione per il lavoro che svolge. Quando arriva il momento del dolce dà a ciascuno di noi un piattino pulito: quelli con i girasoli per le donne, quelli con un cerchio blu per gli uomini. Approfittando della sua assenza io e Marianne ci divertiamo a decostruire i ruoli mischiando i piatti senza farci notare!
-“Anche io avevo i rasta qualche anno fa! Più lunghi di Sisè!” dice improvvisamente.
Ci mostra una fotografia di famiglia in cui lui, però, non è ritratto. Haissam suona il darbouka ma non questa notte, e quando finalmente inizia a reppare in arabo capisco il senso del cappello di cotone a righe blu e grigie che ha in testa da tutta la sera. La maglietta larga e nera con la scritta Adidas ben visibile, i pantaloni della tuta in stile hip-hop e la barba nera un poco incolta, tradiscono forse le aspettative di chi si immagina il padrone di casa ristretto tra camicia e pantaloni di velluto. Vent’otto anni appena compiuti, negli ultimi due anni è dimagrito di quasi venti chili.
-“όχι, όχι, παρακαλώ…” (no, no, per favore…)
L’accento di Marianne conferma la sua provenienza senza che nessuno debba chiederle nulla: un francese onnipresente che caratterizza il suo parlare tanto quanto quello degli italiani, spesso intrappolati da una cadenza che trascina le parole più del dovuto. Ad Atene da sei mesi, lavora in un centro di assistenza per richiedenti asilo che chiuderà la prossima settimana.
-“Non ci sono più finanziamenti. Avvocati, assistenti sociali ed educatori non vengono pagati da mesi, ed è già tanto che il cibo continui ad arrivare.”
Per le venticinque persone che vivono presso l’istituto non sono previsti programmi di assistenza. Ognuno per la sua strada: senza lavoro e con figli a carico, si portano dietro documenti impalpabili ed il desiderio di lasciare la Grecia. Marianne ha ventisette anni, capelli corti marroni ed una camminata che la slancia verso l’alto. Dai vestiti che indossa traspare a tratti la sua francesità: pantaloni rosa, scarpe di pelle marroni con un tacco sensibile, gilet verde, un’espressione furba e sfuggente. Adora parlare greco e fin dal primo momento la nostra comunicazione è stata contaminata da parole apprese giorno dopo giorno. I discorsi che ci accompagnano in questi mesi sono un mix di francese, inglese e greco che agli occhi dei passanti possono apparire come tentativi di una comunicazione che però funziona perfettamente. Apparentemente riservata ma coinvolgente, è capace di passare tutta la notte tra rakì, musica e passi di danza tra il tavolo ed il frigorifero. Fuma lentamente ed offre spesso il suo tabacco.
-“Rita, non ho capito il tuo messaggio…”
-“Volevo dirti che arrivo un po’ più tardi. Sono appena rientrata a casa e volevo riposarmi un attimo. Ma se sei da sola esco subito…”
-“Rita, vieni quando vuoi. Io sono con Joanna, ci vediamo a casa di Haissam!”
L’appartamento si trova vicinissimo a Megaro Mousikì, due stazioni della metro dopo Evangelisomos, direzione Aereoporto. Dalla finestra del quarto piano, si può osservare lo scorrere veloce delle auto che percorrono lo stradone che collega la stazione dei treni di Atene allo stadio Panathinaiko. Percorrendolo a piedi, ci si dimentica del centro della città perdendosi tra i fanali delle macchine ed i pochi volti dei passanti.
Poco prima di arrivare rileggo il messaggio. “…και μόνο Έλληνες εδώ!” (solo greco qui!)
Per questa notte dovrò mettere da parte il mio rozzo inglese per dedicarmi completamente al greco, unica lingua conosciuta dagli invitati nonostante nessuno sia greco.