#Grecia 15/4/13 Atene, pezzi di città

L’intenso traffico mattutino di Atene sollecita quella piacevole sensazione che provoca l’arrivo in Piazza San Babila dopo l’attraversamento di Corso Venezia e Buenos Aires. Guidando sicura tra sorpassi, Dora scuote la testa girandosi un poco, esprimendo quel sentimento di sfida e rassegnazione.
E’ mattina presto quando percorriamo in motorino Alexandaras Avenue dopo un risveglio senza colazione a Kipseli: insieme a Vassilleos Sofias e ad Kostantinoupoleos Avenue, questi vialoni determinano una mia idea di centro città a cui associo riferimenti visivi eterogenei: colori, insegne, negozi, particolari di un muro o di una casa.

Dirigendoci verso est passiamo davanti a degli edifici color panna: increpati, dalle porte sbarrate ed i balconi fioriti, richiamano immediatamente alla memoria i nostri palazzi popolari.
Parallelepipedi di cemento.
Raro vederli: mi stupisco e mi addolcisco perchè mi ricordano Sant’Eusebio, quartiere popolare e periferico di Cinisello Balsamo.
Ricodo che la prima volta che li vidi mi dissi: “ma allora ci sono anche qua!”…come se a volte ci si allontanasse, senza volerlo, da un ricordo, il quale riappare vivissimo non appena la realtà ce lo ripresenta.
Costrutiti per i greci rimpatriati da Izmir, questi palazzi hanno piani limitati, finestre invecchiate, gatti randagi e una riunione settimanale collettiva volta alla gestione delle case e delle eventuali, nuove, occupazionni.
Attraversandone timidamente i cortili le scarpe da tennis di tela si sporcano di terra marrone chiaro.

Dopo di loro, il comando di polizia.

“Prima ti picchiano, poi ti portano all’ospedale ed infine ti condannano…” le dico ironica accovacciata sul sedile anteriore mettendo via la macchina fotografica.

Parcheggiate davanti a quello che oggi è il Tribunale ma che un tempo fu il carcere femminile della città, io e Dora constatiamo l’apparentemente innocente sequenza di edifici posti di fronte a noi: l’ex- carcere, l’ospedale  ed il comando di Polizia.
Un grande stadio verde si impone invece sul lato sinistro della strada; i muri sono scrostati e ricoperti da vecchi adesivi strappati: Gkyzi 13 ed un quadrifoglio nero.
Mani di vecchi calciatori che alzano coppe d’oro e d’argento sono stampati su manifesti monocromo posti alle pareri sopra le entrate.
Il “Panathinaikos Ficlu”  sembra un edificio semi-abbandonatao, quantomeno in disuso, anche se non fino in fondo.
Percorrendo la sua circonferenza provo ad immaginarmi i suoi spogliatoi e la vista dall’alto.
Dai non sguardi che incontro per strada deduco che per queste persone non abbia oggi una particolar importanza. Mi piacerebbe tornarci quando è invaso dai cori.

Constatandone la sua invecchiata bellezza, lo paragono ad altro stadio che attirò la mia attenzione una tranquilla domenica pomeriggio. Impossibile non vederlo una volta scesi a  Faliro, ultima stazione prima del Pireo: rosso, nuovo, imponente. Circondato da bar in cui televisioni appese agli angoli trasmettono la partita a tutto volume.
Durante le partite domenicali viene parzialmente custodito da una polizia che costringe i venditori ambulanti a correre via, trascinandosi giù dalle scale azzurre di ferro stendini cosparsi di scarpe e cappelli.
Non tutti, però, reagiscono così: capita anche di vedere la rabbia espressa da parte di un giovane che non se ne vuole andare.
Non alto di statura si mette in punta di piedi attraverso gesti chiari e decisi. Le quattro o cinque persone che lo circondano, poliziotti annoiati che sorseggiano “ena freddaki cappuccini”, più che una violenza o un’aggressività fisica dimostrano una completa insensibilità. Quasi che si scusassero e gli dicessero: “sappiamo che tu hai ragione, non c’è un motivo ragionevole, ma te ne devi andare”.
Un’apparente innocenza che maschera chiare strategie politiche razziste.
Lui, che non è stupido, capisce benissimo chi ha davanti e dalle espresisoni del viso si può intuire il disgusto che prova nei loro confronti.

Parcheggiamo il motorino ad Ampelokipi, quartiere confinante con Ghizi che non conosco ma in cui si trova la piccola bottega di Haissam.
Io e Dora ci salutiamo senza troppi sentimentalismi, e mentre percorro Vassileos Sofias per tornare a casa ancora per una volta, ripenso alla sua ultima frase: “Buon rientro. In Italia e in Grecia!”

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