Nei giorni scorsi molteplici sono stati comunicati e prese di posizione critiche nei confronti dello spirito di questa iniziativa, da parte di associazioni e partiti del territorio.
Tra le iniziative di contrasto e denuncia, nella notte di domenica 4 novembre centinaia di manifesti sono stati affissi per le strade di Monza e dei Comuni limitrofi, proprio lungo il percorso della Marcia, denunciando l’assurdità dell’iniziativa, il suo carattere propagandistico e la mistificazione storica.
Qui di seguito il testo che figura sui manifesti.
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Il 4 novembre del 1918 mio nonno aveva 8 anni. In cascina, per strada e nei campi alcuni uomini erano spariti, lasciando famiglie tristi, affamate, in povertà. Molti uomini non tornarono più; altri tornarono con il corpo mutilato e la mente offesa dell’esperienza del fronte, dell’obbedienza cieca e obbligata, dall’esperienza della guerra.
In Italia la Prima Guerra Mondiale portò alla morte circa 650.000 persone; più di un milione furono i feriti. La maggior parte erano figli delle classi più povere: contadini, galeotti, persone senza raccomandazioni. Il nazionalismo e qualche kilometro quadrato di terra in più o in meno attorno a frontiere o confini non erano problemi reali della loro quotidianità, ma lo divennero in modo forzato quando le Istituzioni lo decisero e quando i Carabinieri puntavano loro il fucile dietro alla schena per farli uscire dalle trincee.
Chiamiamo guerra lo strumento utilizzato dalle classi dirigenti per mantenere e ampliare forme di potere a discapito del resto della popolazione, nazionale o estera, sulla quale ricade il peso del conflitto e il conto dei morti, al fronte o tra i civili; per determinare il funzionamento di alcuni settori dell’economia in base al cosiddetto “sforzo bellico” (un meccanismo che è sempre in azione, anche negli apparenti periodi di “pace”).
Nel novembre del 1918 la fanfara di regime, i giornali, i partiti, i sindacati, le industrie cantavano “Vittoria”, ma la parola era e resta vuota e il suo significato era e resta una menzogna. Il Paese era lacerato dai lutti e sofferenze, dal sequestro di persone usate come corpi da macello e da un controllo repressivo del territorio che minava ogni libertà di parola, pensiero e azione.
Dietro la facciata dei festeggiamenti ufficiali, molti gioivano per la fine di un massacro che non trovava senso nella vita di chi lo aveva combattuto. Emergevano intanto diversi casi di ammutinamenti di singoli soldati o interi reggimenti che non volevano combattere la guerra dei padroni e che riconoscevano nei soldati di altre nazioni persone come loro, sfruttate come loro per interessi di altri, a dimostrazione che anche nelle situazioni più disperate la volontà e il desiderio di libertà possono trasformarsi in moti incontrollabili e irrecuperabili.
Chi oggi festeggia questa data, consapevole o ingenuo, dà legittimità alle forze armate e a tutte quelle sigle di controllo territoriale -dai Carabinieri alla Polizia, dalla Protezione Civile alla Locale- che militarizzano e burocratizzano i nostri territori limitando sempre più le nostre libertà; fa da sponda a chi propone di reintrodurre la leva obbligatoria vista in funzione “educativa”.
Chi oggi festeggia questa data, consapevole o ingenuo, si allinea a chi vede nello straniero un nemico; si associa a chi fa delle classifiche per sangue ed etnia; si accomuna al fascista, al nazionalista, al
sovranista.
Festeggiare questa data significa mettersi nello stesso solco di quei regimi totalitari e repressivi che plasmano cittadini impastando mitologia e propaganda, sangue e suolo: ne fu massimo esempio il regime
fascista in Italia, che festeggiava questa data con ardore, ribattenzandola appunto Festa della Vittoria.
Il 4 novembre era ed è un data di lutto: trasformiamola in una data che ricordi gli ammutinamenti e le sollevazioni contro le nazioni e il filo spinato dei loro confini, contro le guerre e contro gli Stati che le combattono.
Disertiamo quindi ogni celebrazione retorica, ogni mistificazione storica, nel rifiuto della guerra e dei suoi signori, del militarismo e del suo pericoloso tentativo di dialogare con le giovani generazioni.
IERI COME OGGI, GUERRA ALLA GUERRA!